Il sottile confine tra impresa agricola ed impresa commerciale

Intervento dell’Avv. Tommaso Stanghellini su Il Fallimento Ipsoa n.1/2017.

Con la decisione in commento la Cassazione torna ad occuparsi dei limiti di assoggettabilità od esclusione del fallimento dell’imprenditore agricolo. Secondo l’Autore, i principi enunciati dalla Suprema Corte, tendenzialmente in linea con le precedenti pronunce, costituiscono il punto di partenza per l’analisi della portata dell’art. 2135 c.c. e la definizione della “attività principale”, con particolare riferimento alla necessità di un collegamento funzionale tra tale attività ed il fondo, nonché per la definizione delle c.d. “attività connesse”. L’analisi si estende all’onere della prova nell’istruttoria prefallimentare, così come enucleato dalla giurisprudenza di legittimità, ed alla natura del credito azionato in tale sede.

La vicenda processuale e le questioni affrontate

La Sentenza della S.C. qui annotata affronta il tema della fallibilità di un’impresa formalmente qualificata come agricola. La questione viene esaminata sia sotto il profilo delle condizioni in base alle quali un’impresa può essere qualificata agricola ex art. 2135 c.c., sia sotto il profilo dell’onere della prova in ordine alle circostanze che consentono di essere esonerati dal fallimento, quali la mancanza dei requisiti dimensionali stabiliti dall’art. 1 l.fall. o l’esistenza di uno status speciale dell’imprenditore. La Cassazione affronta infine il problema della natura dell’accertamento dello stato di insolvenza ex art. 5 l.fall.

Il tema della fallibilità dell’impresa agricola appare di particolare attualità vista la recente tendenza della giurisprudenza a qualificare, sempre più spesso, come commerciali anche le imprese iscritte nella sezione speciale del Registro delle Imprese come agricole ed a dichiararne il fallimento a fronte della loro insolvenza. È quindi evidente come l’individuazione dei criteri interpretativi in base ai quali si determinano i limiti dell’area di applicazione dell’art. 2135 c.c. diventi una questione decisiva per stabilire l’agrarietà di un’impresa e la sua sottrazione al fallimento. Così come appare fondamentale la ricostruzione di una corretta ripartizione dell’onere della prova relativamente alla dimostrazione delle circostanze esimenti.

Come è noto, per effetto della modifica operata dall’art. 1 del D.Lgs. n. 228 del 2001, l’art. 2135 c.c. ha subito un notevole ampliamento, sia sotto il profilo della definizione della c.d. attività principale, ora incentrata sull’attività diretta alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria dello stesso di carattere vegetale od animale, sia sotto il profilo del novero delle attività connesse. Questo ampliamento ha indotto parte della dottrina a ritenere necessaria un’interpretazione restrittiva della norma al fine di ridurre l’ambito e l’estensione delle attività agricole (1). Infatti, il venir meno del necessario collegamento tra l’attività agricola ed il fondo ha reso sempre più ardua l’individuazione di criteri certi che consentano di tracciare il confine tra l’impresa agricola e l’impresa commerciale (2). E nelle più recenti pronunce della Cassazione si assiste al tentativo di individuare tali criteri di determinazione (3). Il caso esaminato dalla Suprema Corte con la sentenza in esame è relativo alla dichiarazione di fallimento di una impresa che svolgeva attività di commercio all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli, freschi e conservati (congelati e surgelati). Nei giudizi di merito l’impresa non aveva allegato alcun elemento concernente l’estensione del terreno destinato alla coltivazione, né aveva documentato la consistenza e la qualità della sua produzione, ma si era limitata ad eccepire la circostanza formale della sua iscrizione nel Registro delle Imprese come imprenditore agricolo. Tra i motivi del ricorso in Cassazione, l’impresa ha dedotto la violazione degli artt. 2135 e 2221 c.c. nonché l’insufficiente e contradditoria motivazione in ordine alla qualificazione soggettiva dell’impresa; con altro motivo, ha dedotto la violazione e la falsa applicazione dell’art. 5 l.fall. e la contraddittorietà della motivazione della sentenza della Corte d’Appello con riferimento alla ritenuta sussistenza della stato di insolvenza. Il primo motivo di ricorso è stato respinto in quanto la Corte regolatrice ha ritenuto che l’esonero dall’assoggettamento dell’imprenditore agricolo al fallimento non è incondizionato ma viene meno quando è di fatto insussistente il collegamento funzionale con il fondo o quando le attività connesse acquistano un ruolo prevalente e sproporzionato rispetto all’attività principale (e la relativa valutazione è riservata al giudice di merito). Il secondo motivo di ricorso, relativo all’accertamento dello stato di insolvenza, è stato ritenuto infondato in quanto la Cassazione ha ritenuto sufficiente un accertamento incidentale della pretesa creditoria ed ha ritenuto irrilevante che il credito posto a fondamento dell’istanza di fallimento fosse contestato ed ancora sub judice.

Il legame tra fondo e attività agricola e le attività connesse

Può essere utile anzitutto comprendere le ragioni storiche della difficoltà di una ricostruzione in termini giuridici del concetto di “imprenditore agricolo” e perché ancor oggi sia abbastanza difficile indicare il limite, il confine fra l’imprenditore agricolo e l’imprenditore commerciale. Nell’epoca anteriore alla Rivoluzione industriale il soggetto attivo del sistema economico non era il produttore, ma il commerciante, giacché il primo operava su commessa del secondo e sulla figura del mercator si imperniava anche il sistema giuridico. La lex mercatoria di origine medievale era il diritto della classe dei mercanti (4). E l’agricoltore non era il mercante, ma era il “produttore del cibo”. Essere produttore del cibo voleva dire avere a che fare con la terra su cui vengono coltivate le piante che daranno luogo ai frutti che saranno cibo per gli uomini. Ancora nel Codice del Commercio del 1882 per l’art. 5 non erano atti di commercio “la vendita che il proprietario o il coltivatore fa dei prodotti del fondo suo o da lui coltivato”. Quindi, la coltivazione del fondo, l’allevamento, la silvicoltura e le attività connesse non potevano in alcun modo essere ricondotte ad una dimensione commerciale dal punto di vista giuridico neppure nella loro fase di commercializzazione sul mercato. Inoltre, essendo totalmente sottratta dal regime di impresa, mancava del tutto una definizione giuridica dell’attività agricola. L’attività agricola era disciplinata dal diritto civile, insieme al diritto di proprietà. Il legislatore del 1942 elimina la bipartizione fra codice civile e codice del commercio e con l’art. 2135 c.c. consegna al mondo del diritto la prima definizione di imprenditore agricolo. Ma ancora, per quella definizione, l’impresa agricola era attratta alle regole del fondo che ne costituiva l’indiscusso “baricentro”. Ancora l’imprenditore agricolo era colui che aveva un rapporto inscindibile con il fattore “terra”. È dunque nella genesi storica dell’art. 2135 c.c. che deve essere individuata la ragione della difficoltà che ancora permane nell’individuare il discrimen tra impresa agricola e impresa commerciale (5).

Con la sentenza in commento, la Cassazione riconosce che con l’ampliamento dello statuto agrario compiuto dal D.Lgs. n. 228/2001 la relazione dell’attività agricola con il fondo si è fortemente ridotta a favore di aspetti spiccatamente commerciali e produttivi; tuttavia, la Corte ritiene che debba comunque sussistere un collegamento funzionale con la terra, intesa come fattore di produzione, e che le attività connesse non debbano assumere un rilievo prevalente e sproporzionato rispetto a quelle della coltivazione, dell’allevamento e della silvicoltura. Secondo la Corte, anche se deve ritenersi superata la nozione meramente fondiaria dell’agricoltura fondata esclusivamente sulla centralità dell’elemento terriero di cui al previgente art. 2135 c.c., va negata la qualità di impresa agricola quando non risulti la diretta cura di alcun ciclo biologico, vegetale o animale.

Con tale principio, la sent. 8 agosto 2016, n. 16614 si inserisce in modo del tutto coerente con il consolidato orientamento di legittimità secondo il quale la riforma del 2001 ha introdotto nell’ambito dell’agrarietà, relativamente all’attività principale, attraverso il richiamo alla cura di un ciclo biologico od anche di una sola fase dello stesso, anche attività che non richiedono un collegamento tra la produzione e l’utilizzazione del fondo, essendo sufficiente a tale scopo il semplice collegamento potenziale o funzionale con il terreno invece che reale come richiesto dalla nozione giuridica prece- dente (6). Una tale nozione di agricoltura, intesa ora come cura di esseri “viventi”, vegetali od ani- mali (7), permette l’inclusione di attività precedentemente non ricomprese nella nozione di impresa agricola come il vivaismo, la vasetteria, la serricoltura o la funghicoltura, e ciò perché l’attenzione e la cura di esseri vegetali o animali può ben essere limitata ad una singola fase del loro ciclo biologico (8). La giurisprudenza sottolinea quindi come la nuova nozione di imprenditore agricolo assuma confini notevolmente più ampi rispetto alla disciplina precedente, essendo sufficiente che l’inter- vento dell’imprenditore nell’ambito del processo produttivo sia limitato ad un’attività di controllo delle condizioni necessarie allo sviluppo ed alla progressione di una fase del ciclo biologico (9). Addirittura l’utilizzazione del terreno viene relegata da alcune pronunce della giurisprudenza di meri- to ad elemento accessorio od eventuale (10). La coltivazione del fondo viene quindi identificata con la cura del ciclo biologico, che non potrà mai mancare se si vuole rientrare nello statuto agrario. La sentenza in commento sembra invece voler ribadire l’importanza del fondo, pur nella nuova accezione conferita dall’art. 2135 c.c., rivendicando la necessità di un collegamento, quantomeno funzionale, tra produzione e fondo, tra attività e terra, che impedisca di ridurre il fondo a mera sede di stazionamento dei prodotti, a bene fungibile, privo di una qualsiasi rilevanza produttiva. In tal caso, secondo la Corte, la natura dell’attività esercitata dall’imprenditore dovrà essere considerata di tipo esclusivamente commerciale. In altre parole, ai fini della qualificazione agricola dell’attività si dovrà tener conto dell’oggetto dell’attività e della cura del ciclo biologico, a condizione che l’attività si svolga sul fondo inteso anche come semplice supporto strumentale limitato e parziale e sempre che il fondo mantenga una qualche incidenza sullo sviluppo del ciclo produttivo e sui prodotti che ne derivano (11).

La sentenza conferma l’irrilevanza dell’iscrizione nella sezione speciale del Registro delle Imprese, in quanto, come è noto, essa non ha valore costitutivo, e conferma la tesi della giurisprudenza di merito secondo la quale lo svolgimento effettivo e diretto da parte dell’imprenditore dell’attività di cura del ciclo biologico vegetale o animale costituisce il presupposto necessario ed indispensabile per l’esenzione dal fallimento (12). La natura concreta dell’attività esercitata ed il principio della connessione potenziale del fondo con l’attività produttiva sono quindi i parametri fondamentali per operare la distinzione tra impresa agricola ed impresa commerciale (13).

Segue: le attività connesse

Più laconica è invece la sentenza laddove fa riferimento alle cc.dd. attività connesse. La Corte afferma infatti che l’esonero dal fallimento di un’impresa viene meno quando “le attività connesse di cui all’art. 2135 c.c. assumano rilievo decisamente prevalente, sproporzionato rispetto a quelle di coltivazione, allevamento e silvicoltura” e che il giudice di merito dovrà valutare la ricorrenza dei requisiti di connessione tra le attività commerciali e quelle agricole e la prevalenza di queste ultime. Innanzitutto è necessario precisare che l’imprenditore agricolo moderno è, appunto, soprattutto un imprenditore. Tale dato risulta evidente dal rapporto che sussiste tra l’art. 2082 c.c. che definisce l’imprenditore in generale, e l’art. 2135 c.c. che definisce l’imprenditore agricolo in particolare. Questo implica che l’imprenditore agricolo produce per rivendere, per stare sul mercato. L’attività di vendita non può quindi essere ritenuta marginale o secondaria. La riforma del 2001 ha infatti rafforzato la dimensione propriamente imprenditoriale dell’impresa agricola, configurando un’attività di cura di un ciclo biologico volta alla creazione, in modo organizzato, di utilità di tipo economico destinate ai consumatori. L’agricoltura ha quindi la specifica funzione di produrre ricchezza al pari di ogni altra attività imprenditoriale (14). Non è quindi pensa- bile che l’imprenditore agricolo possa essere qualificato come tale solo quando le attività di coltivazione di allevamento o di silvicoltura siano maggioritarie rispetto alle attività connesse, se queste ultime vengono intese, come espressamente dice la norma, nel significato di commercializzazione, manipolazione, trasformazione, conservazione e valorizzazione dei prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali. In questo senso il principio espresso dalla Corte pecca di genericità. La vendita, e le altre attività connesse indicate dal terzo comma dell’art. 2135 c.c., costituiscono l’attività ordinaria dell’impresa agricola, rappresentando l’elemento che differenzia l’agricoltura svolta in forma d’impresa dall’attività di coltivazione a fini di auto- consumo, tipica di una forma di agricoltura ormai del tutto recessiva nel panorama contemporaneo (15). Il problema interpretativo si incentra quindi su due questioni: la prima verte sul significato del termine “connessione”, la seconda verte sul significato del concetto di “prevalenza”.

Sotto il primo profilo le attività “connesse” vengono così definite in quanto attività che, di per sé, avrebbero natura commerciale e quindi sarebbero potenzialmente in grado di attribuire la qualifica di imprenditore commerciale ex art. 2195 c.c. Tuttavia tali attività acquistano natura agricola proprio in base alla loro connessione con l’attività principale dell’impresa agricola e perché sono inserite nell’organizzazione aziendale della stessa. In questo specifico senso esse sono accessorie rispetto all’attività principale e dovranno inevitabilmente avere una connessione funzionale con quest’ultima (16). In presenza di questo legame si eviterà che l’attività connessa divenga autonoma e riacquisti la natura commerciale e parallela che le è propria, esponendo l’imprenditore sovraindebitato al rischio di una dichiarazione di fallimento (17). D’altra parte, l’ampliamento delle attività connesse è ricollegato al profondo mutamento della struttura tecnologica ed economica dell’impresa ed alla necessità di un’offerta il più possibile diversificata per affronta- re la competizione in un mercato ormai globalizza- to. La stessa norma, nell’indicare le varie tipologie di attività connesse, usa poi, al posto del termine “alienazione” utilizzato dal codice del 1942, la più lata e pregnante espressione “commercializzazione” inserita dal legislatore del 2001, il che fa pensare ad una vera e propria attività di intermediazione da parte dell’imprenditore agricolo che acquista anche prodotti di terzi per poi rivenderli (18).

Sotto il secondo profilo, ovvero quello della “prevalenza”, è evidente che prevalente non deve essere la coltivazione, l’allevamento, la silvicoltura rispetto alla commercializzazione in quanto, come detto, l’imprenditore agricolo moderno coltiva per vendere, quanto debbono essere prevalenti, nell’attività di vendita, i prodotti propri rispetto ai prodotti acquistati da terzi. Altrimenti, a parere di chi scrive, non si comprende la portata innovativa del- l’art. 2135 c.c. quale risulta in seguito alla modifica del 2001. Se viene rispettato il parametro della prevalenza tra prodotti commercializzati propri e prodotti commercializzati di terzi, l’attività agricola principale avrà modo di estendere i suoi effetti sull’attività connessa propriamente commerciale, con- giungendosi in una attività unitaria che non farà perdere all’imprenditore i requisiti dell’agrarietà. Al contrario, se tale parametro non viene rispettato, l’attività commerciale si porrà in una posizione di indipendenza rispetto a quella agricola rientrando nel perimetro dell’art. 2195 c.c., esponendo in tal modo l’intera impresa agricola ad una dichiarazione di fallimento (19).

È da notare però che la sentenza in commento sembra porre il rapporto di “prevalenza” genericamente fra le attività e non fra i prodotti, e dunque sposta il raffronto di prevalenza fra l’attività principale e le attività connesse. Ed il confronto di prevalenza fra le attività svolte è quasi univocamente presente nella giurisprudenza di legittimità secondo la quale ha natura commerciale, e quindi è soggetta al fallimento, quell’attività che, anche se idonea a soddisfare esigenze connesse alla produzione agricola, risponde a scopi commerciali od industriali e realizza utilità del tutto indipendenti o comunque prevalenti rispetto all’attività agricola (20). Si segnala comunque anche un orientamento che utilizza il criterio qui proposto della prevalenza fra prodotti propri e prodotti di terzi (21).

Si può comunque concludere che le attività connesse dovranno porsi in una relazione di strumentalità rispetto all’attività principale sia in relazione alla fase della produzione, sia in relazione alla fase della commercializzazione dei prodotti acquistati da terzi la quale dovrà avere il solo scopo di integrare il fatturato complessivo dell’impresa agricola (22). Ovviamente anche le attività di natura meramente finanziaria, quali ad esempio i finanziamenti o la prestazione di garanzie a terzi od a società collegate, sono indubitabilmente attività autonome rispetto all’attività agricola, e come tali indice di commercialità, soprattutto quando tale elemento è presente anche nell’oggetto sociale.

L’onere della prova della natura agricola dell’impresa

La Corte affronta poi il tema relativo al riparto dell’onere della prova in materia fallimentare, confermando il principio generale secondo il quale la parte che chiede il fallimento dovrà allegare e provare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi idonei a dimostrare l’assoggettabilità al fallimento, ossia lo status di imprenditore e la sua incapacità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, mentre il debitore sarà onerato della prova di far parte di una categoria di imprenditori, quale quella dell’imprenditore agricolo, non soggetta al fallimento, o della mancanza dei requisiti dimensionali richiesti dall’art. 1 l.fall. Nella sentenza in commento si ricorda che tale ripartizione rispecchia la tradizionale distinzione tra dimostrazione dei fatti costitutivi, che come tali gravano sulla parte che richiede il fallimento, e dimostrazione dei fatti impeditivi di cui è onerato il debitore (23). Tale affermazione è conforme ai principi generali in tema di onere della prova. L’art. 1 l.fall. va infatti interpretato in modo coerente con il principio dispositivo stabilito dall’art. 2697 c.c. sulla base del quale grava su chi fa valere un diritto in giudizio l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa, mentre grava su chi si difende la dimostrazione dei fatti impeditivi. D’altra parte, secondo la Corte l’assoggettabilità al fallimento rappresenta la regola generale mentre l’esclusione, derivante dal mancato raggiungimento delle soglie prescritte o dall’appartenenza ad una categoria esclusa, costituisce l’eccezione, dal che ne deriva che la prova richiesta al debitore nel secondo comma dell’art. 1 l.fall. non costituisce una inversione dell’onere della prova bensì l’onere di dimostrare un fatto impeditivo (24).

La Corte richiama poi espressamente il principio, riconducibile all’art. 24 Cost. (25), di prossimità della prova, secondo il quale l’onere deve gravare sul soggetto più vicino alla fonte oggetto di prova. Nella fattispecie in esame, anche facendo applicazione di tale principio, la Corte afferma che era onere dell’imprenditore dimostrare la sussistenza di circostanze esimenti il fallimento che lo riguardavano. Tale impostazione è del tutto coerente con altre pronunce di legittimità secondo le quali, proprio in virtù del principio di prossimità della prova, le conseguenze derivanti dall’incertezza in ordine alla tipologia di impresa od alla sussistenza dei suoi requisiti dimensionali dovranno essere sopportate dalla parte che si trova nella condizione di disporre dei relativi mezzi probatori. Il riferimento della sentenza al principio di vicinanza della prova impone dunque uno specifico onere di allegazione e di dimostrazione dei fatti impeditivi. Diversamente opinando si rischia di onerare il creditore di una probatio diabolica dato che egli non dispone della documentazione necessaria che è viceversa nella piena disponibilità del debitore.

La Corte afferma poi che l’allegazione della natura agricola dell’impresa rappresenta un’eccezione in senso lato come tale rilevabile d’ufficio dal giudice, anche in sede di appello in virtù dei preminenti interessi pubblici legati alla dichiarazione di fallimento. È tuttavia necessario tener conto che i “poteri istruttori officiosi, con ruolo di supplenza anche in grado di appello” che la Corte riconosce al giudice debbono pur sempre essere inseriti nel con- testo del più generale principio dispositivo che informa l’istruttoria prefallimentare. In base a tale principio, il giudice non può sollevare d’ufficio questioni od eccezioni che dovevano essere eccepite o comunque allegate dalle parti e/o quantomeno emergere dagli atti processuali. Il potere di eccezione d’ufficio rimane quindi confinato nel campo di ciò che già risulta acquisito al processo ed il giudice non può ricercare elementi di prova o sollevare eccezioni che non siano già state proposte dalle parti (26). Peraltro c’è anche chi ha ritenuto che i poteri di verifica officiosa del giudice debbano considerarsi espunti dall’ordinamento dopo l’abrogazione, a seguito della riforma del 2006, della disposizione contenuta nell’art. 6 l.fall. della dichiarazione d’ufficio del fallimento, che di tali poteri costituiva l’antecedente logico giuridico. Anche in questo caso tuttavia si ammette l’esercizio di poteri istruttori di tipo integrativo di mezzi di prova già introdotti nel procedimento, nel rispetto del generale principio dispositivo sopra menzionato (27). Altre pronunce di merito, invece, sulla base del presupposto che la natura commerciale o agricola dell’impresa costituisce non fatto impeditivo, come sostenuto dalla sentenza in commento, bensì fatto costitutivo della domanda hanno disposto una consulenza tecnica d’ufficio per verificare quale fosse in concreto l’attività esercitata (28).

In conclusione, a fronte della mancata prova circa i limiti dimensionali previsti dal comma 2 dell’art. 1 l.fall. o circa la natura dell’impresa, non potrà che conseguire la dichiarazione di fallimento, non potendosi ammettere che il creditore si debba fare carico di provare dati di cui non ha la disponibilità quali la situazione patrimoniale del debitore, i suoi ricavi od il suo indebitamento (29).

Sulla natura del credito azionato in sede fallimentare

Nel respingere il secondo motivo di ricorso, con il quale il debitore contestava la sussistenza dello sta- to di insolvenza sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l.fall., la Corte afferma l’irrilevanza del fatto che la pretesa creditoria sot- tesa all’istanza di fallimento fosse controversa. Il credito fatto valere nell’istruttoria prefallimentare era infatti stato precedentemente oggetto di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, opposto dal debitore. La Cassazione ha affermato che è sufficiente un accertamento incidentale da parte del giudice fallimentare volto a verificare la sola legittimazione attiva da parte del creditore istante. Peraltro, la sussistenza del credito non è che un in- dice dello stato di insolvenza che come è noto si sostanzia in una generale impotenza strutturale e non transitoria del debitore il quale non è più in grado di soddisfare con regolarità e con mezzi normali le proprie obbligazioni, ed è irrilevante ogni analisi circa l’imputabilità della cause del dissesto dell’imprenditore (30). Il credito posto a fondamento dell’istanza di fallimento può dunque anche non essere certo, liquido od esigibile, e può essere sottoposto a termine non scaduto od a condizione non verificatasi (31). A supporto della propria argomentazione, la Corte richiama la sent. n. 1521 del 31 gennaio 2013 in cui le Sezioni Unite hanno affermato il principio secondo il quale l’art. 6 l.fall. in tema di iniziativa per la dichiarazione di fallimento non presuppone un definitivo accertamento del credito in sede giudiziale, essendo sufficiente un accertamento incidentale dovendosi verificare soltanto la legittimazione dell’istante. Tale impostazione trova la sua giustificazione nel fatto che l’istanza di fallimento non rappresenta l’esercizio di una azione esecutiva ed è per questo che la posizione del creditore viene valutata solo incidentalmente. Sarà quindi addirittura possibile che il credito vantato dall’istante venga successivamente escluso dallo stato passivo in sede di verifica quando vi sia il successivo concorso di una pluralità di creditori (32).

Conclusioni

La sentenza qui commentata ha cercato di precisare il confine sussistente tra l’impresa commerciale, sottoposta al fallimento, e l’impresa agricola che ne è esentata (33). Nel far questo la S.C. ha specificato in relazione all’attività principale disciplinata dai primi due commi dell’art. 2135 c.c., la necessità, anche a fronte del venir meno della concezione prevalentemente fondiaria dell’agricoltura e dell’abbandono della nozione giuridica di impresa agricola che ruota intorno al fattore terra, che l’attività agricola abbia comunque un collegamento funzionale con il fondo (34). Secondo la Corte, l’attività dell’impresa agricola deve quantomeno presentare in via potenziale o teleologica un nesso con il fattore terra che, anche se ha perso la sua centralità, deve continuare ad essere considerato elemento irrinunciabile sotto il profilo dei fattori produttivi.

Per quanto concerne le attività cc.dd. connesse, disciplinate dal terzo comma dell’art 2135, la Corte ritiene che queste non possano assumere un rilievo prevalente e sproporzionato rispetto all’attività principale. Con tale posizione la Cassazione afferma il principio generale della preminenza delle attività principale sulle connesse (35). Tuttavia l’affermazione di questo principio lascia irrisolta la questione delle condizioni e dei termini del rapporto di prevalenza. Ad avviso di chi scrive tale rap- porto non deve essere inquadrato in termini generali bensì deve essere posto sul piano della relazione sussistente tra la produzione agricola, ossia tra i prodotti provenienti dalla cura del ciclo biologico di natura vegetale o animale, ed i prodotti che l’imprenditore ha acquistato da terzi allo scopo di ampliare la gamma della propria offerta sul mercato. In altre parole l’attività di vendita di prodotti acquistati da terzi non potrà qualificare l’impresa come commerciale e determinare la soggezione al fallimento quando tale attività può essere qualificata come connessa a quella agricola e complementare rispetto all’attività principale (36). E ciò anche se l’attività connessa di natura commerciale dovesse superare i limiti dimensionali posti dall’art. 1 l.fall. Altrimenti non avrebbe senso la previsione dell’art. 2135, comma 3, c.c.

Stante poi il generale principio della fallibilità, è a carico del debitore l’onere della prova di essere un soggetto esonerato dalla dichiarazione di fallimento. Tuttavia, la portata di tale onere è mitigata dal fatto che secondo la Corte, e secondo l’orienta- mento prevalente, la relativa eccezione che fa carico al debitore è rilevabile d’ufficio nei limiti del rispetto del principio dispositivo per cui i fatti da indagare saranno in ogni caso solo quelli che le parti hanno già introdotto nelle loro difese.

In definitiva, si deve sottolineare come il legislatore del 2001, nonostante le incertezze nello stabilire un confine netto tra impresa commerciale ed impresa agricola, ha senza dubbio ampliato le fattispecie ricadenti nel perimetro dell’art. 2135 c.c. ed ha poi confermato nel 2012 la non estensione della dichiarazione di fallimento all’impresa agricola, prevedendo per essa il diverso strumento della composizione della crisi da sovraindebitamento. Ciò evidenzia la persistente volontà del legislatore di individuare forme alternative alla dichiarazione di fallimento. Non appare davvero giustificabile l’auspicio più volte espresso dalla dottrina di estendere l’area della fallibilità anche all’impresa agricola. Si tratta di una aspettativa che non comprende appieno né la genesi storica della definizione giuri- dica di imprenditore agricolo, né le profonde differenze strutturali, sia dal punto di vista naturale che economico che intercorrono fra l’impresa agricola e l’impresa commerciale.

 

Note

(1) I. Canfora, L’impresa agricola nell’interpretazione della Giurisprudenza di Cassazione dopo la riforma del 2001, in Riv. dir. agr., II, 4, 2011, 232; A. Jannarelli, L’impresa agricola nel sistema agroindustriale, in Riv. giur. agr. amb., 2002, 19; L. Costato, La nuova versione dell’art. 2135 cod. civ. e la Corte di Cassazione, in Riv. dir. agr., 2004, I, 11.

(2) C. Russo, Imprenditore agricolo professionale e fallibilità dell’impresa agricola, in Corr. mer., 2012, 1002. Le problematiche legate all’ampliamento della nuova nozione di imprenditore agricolo ex art. 2135 c.c. hanno indotto il Trib. Torre Annunziata a sollevare, con ord. 20 gennaio 2011, la questione di cotituzionalità dell’art. 1 l.fall., con riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui esclude gli imprenditori agricoli dalla assoggettabilità al fallimento. La questione è stata dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale con la sent. 20 aprile 2012, in questa Rivista, 2012, 1174; cfr. anche T. Sannini – T. Stanghellini, L’imprenditore agricolo insolvente tra fallimento e sovraindebitamento: un caso nel florovivaismo pistoiese, in www.il caso.it, 20 luglio 2015, 2.

(3) Oltre alla sentenza in commento, si legga la fondamentale Cass. 10 dicembre 2010, n. 24995.

(4) F. Galgano, “La globalizzazione nello specchio del diritto”, Bologna, 2005, 43.

(5) Nello stesso senso si può leggere M. Fabiani, Diritto falli- mentare. Un profilo organico, Bologna, 2011, secondo il quale “le radici del fallimento nello jus mercatorum rappresentano verosimilmente, oggi, l’unica spiegazione del motivo per il quale le imprese agricole non falliscono”.

(6) Tale principio viene espresso in Cass. 10 dicembre 2010, n. 24995, cit.

(7) La riforma del 2001 ha sostituito, nel comma 1 dell’art. 2135 c.c., relativo all’attività principale dell’allevamento, il termine “bestiame” con il termine “animali”, e ciò per contrasta- re la giurisprudenza di legittimità che aveva interpretato restrittivamente il termine “bestiame”, cfr. Cass. 10 dicembre 2010, n. 24995, cit.

(8) A. Germanò – E. Rook Basile (A cura di), Art. 2135 in “Commentario del codice civile”, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2014, 613.

(9) Cass. 10 dicembre 2010, n. 24995, cit.

(10) App. Catania 31 maggio 2012, in Corr. mer., 2012, 1000.

(11) Cass. 5 dicembre 2002, n. 17251 sul punto cfr. anche Cass. 24 marzo 2011, n. 6853 e Cass. 10 dicembre 2010, n. 24995, cit.

(12) Cfr. anche Trib. Rovigo 20 novembre 2014, in www.il- caso.it.

(13) App. L’Aquila 26 febbraio 2013, in www.plurisceda- m.utetgiuridica.it; Trib. Rovigo 20 novembre 2014, in www.il caso.it; Trib. Udine 21 settembre 2012, in www.ilcaso.it; M.M. Gaeta, Il fallimento di una associazione di imprenditori agricoli, in Giust. civ., 2012, 2761 ss.

(14) A. Germanò – E. Rook Basile (a cura di), op. cit., 589 ss.

(15) Ivi, 660.

(16) Ivi, 690.

(17) Ivi, 691.

(18) Ivi, 701ss.
(19) Cass. 30 maggio 2014, n. 12311, ord.
(20) Cass. 6 novembre 2014, n. 23719, ord.; Cass. 21 gennaio 2013, n. 1344; Cass. 17 luglio 2012, n. 12215; Cass. 24 marzo 2011, n. 6853.

21) Cass. 26 novembre 2014, n. 25176, ord.; Trib. Mantova 30 agosto 2007.

(22) G. Minutoli, Il nuovo imprenditore agricolo tra non falli- bilità e privilegio codicistico del coltivatore diretto, in questa Ri- vista, 2003, 1157.

(23) In tale passaggio la Corte fa cenno non solo alla dimostrazione dello status di imprenditore agricolo o alla dimostrazione di essere sotto soglia in relazione ai parametri previsti dall’art 1, comma 2, l.fall. ma anche alla dimostrazione della sussistenza del rapporto di connessione tra le attività di commercializzazione e di trasformazione e l’attività di coltivazione ai sensi dell’art. 2135 c.c.

(24) F. Canazza, Apparato probatorio ed oggetto dell’indagine fallimentare, in questa Rivista, 2012, 692; F. De Santis, Oneri della prova nel processo di fallimento, in questa Rivista, 2011, 668; F. Canazza, Onere della prova, poteri di indagine del Tribunale ed esame dei presupposti di fallibilità, in questa Rivista, 2011, 1431; M. Giusta, sub art. 1, in AA.VV., Codice commentato del Fallimento, G. Lo Cascio, Milano, 2008, 17.

(25) Cfr. Cass. 31 marzo 2016, n. 6209; Cass. 14 gennaio 2016, n. 486.

(26) Cfr. Cass. 20 agosto 2004, n. 16356 richiamata in motivazione dalla sentenza in commento.

(27) Trib. Pistoia 14 novembre 2014, in www.ilcaso.it; T. Sannini – T. Stanghellini, op. cit., 2.

(28) Trib. Rovigo 20 novembre 2014, in www.il caso.it.

(29) Cass. 31 maggio 2011, n. 12023; Cass. 15 novembre 2010, n. 23052; Cass. 15 maggio 2009, n. 11309.

(30) P. Pajardi, Codice del Fallimento, Milano, 2013, 99; M. Fabiani – G.B. Nardecchia, Legge Fallimentare, Formulario commentato, Milano, 2014, 25.

(31) M. Fabiani – G.B. Nardecchia, op. cit., 43.
(32) Cass. 3 novembre 2005, n. 21327.
(33) Il sovraindebitamento dell’impresa agricola è, come è noto, disciplinato dalla L. 27 gennaio 2012, n. 3, come integrata dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 che ha introdotto il comma 2 bis all’art. 7 secondo il quale “l’imprenditore agricolo in stato di sovraindebitamento può proporre ai creditori un accordo di composizione della crisi secondo le disposizioni della presente sezione”.

(34) L’attività principale deve essere intesa secondo il criterio agrobiologico come una concreta attività di cura di un ciclo biologico o di una fase necessaria dello stesso di carattere vegetale o animale.

(35) G. Cian – A. Trabucchi, Commentario breve al Codice Civile, Padova, 2016, 2472.
(36) Cfr. Trib. Rovigo 20 novembre 2014, su www.ilcaso.it.

 

 

 

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